Errori nella gestione della pandemia in Italia
Data pubblicazione: 01/02/2021 - Ultimo aggiornamento: 28/05/2022
Categoria: News - Autore: Monica Amato - Saverio Stranges
L’Italia è, dopo il Giappone, il secondo Paese al mondo con percentuale di persone aventi più di 65 anni, tale dato risulta essere pari al 23%. Il fattore demografico ha giocato un ruolo importantissimo nel determinare l’alto tasso di letalità da Covid, soprattutto per la nostra incapacità di proteggere quella che rappresenta la fascia più vulnerabile della popolazione, ovvero quella anziana, presente principalmente all’interno delle RSA, strutture molto diffuse soprattutto del Nord Italia. Esiste poi un altro importante fattore, che ha favorito la diffusione del contagio fra gli anziani nel nostro Paese, ed è dato dal modello di famiglia intergenerazionale, che facilita l’interazione fra nonni, figli e nipoti: tale modello infatti risulta parte integrante del nostro sistema relazionale e persino di welfare. In conseguenza di ciò, l’aspetto demografico sembra essere più che altro una concausa della diffusione del virus e dell’alto tasso di mortalità registrati in Italia; a tal proposito giova sottolineare che, in Paesi con una struttura demografica simile alla nostra, come Giappone e Germania, il numero di decessi è stato decisamente inferiore.
Nell’analisi effettuata bisogna però anche menzionare il differente sistema di conteggio dei morti da Covid, utilizzato dall’Italia rispetto ad altri Paesi sebbene, a riguardo, necessita precisare che mancano delle linee guida internazionali dettate dall’OMS in grado di standardizzare il modo di certificare i morti da Covid. La diatriba, dunque, è stata: morti per il Covid o con il Covid? L’Italia ha adoperato un criterio ampio e generoso nell’accertamento dei decessi, assegnando come morti Covid anche quelli che avevano una patologia primaria che era stata la causa dell’ospedalizzazione. Se, ad esempio, un paziente entrava in ospedale per un infarto del miocardio e poi moriva dopo aver contratto il virus in ospedale, quel decesso veniva conteggiato come morto per Covid. Ciò non è avvenuto in altri Paesi occidentali. D’altro canto, In Africa e in molti Paesi in via di sviluppo, il sistema di certificazione delle morti è invece ancora molto precario, per cui spesso la causa del decesso non è tuttora diagnosticata.
C’è poi la questione del criterio con cui sono stati effettuati i tamponi, argomento su cui risulta interessante effettuare un raffronto fra il caso italiano e quello della Corea del Sud qui di seguito illustrato.
La Corea del Sud, così come altre realtà asiatiche, ha saputo introdurre un contact tracing efficace ed ha quindi sottoposto a tampone non solo i casi sintomatici – com’è avvenuto nella prima fase dell’epidemia in Italia e in altri Paesi occidentali – ma anche quelli asintomatici, che hanno rappresentato una buona percentuale del serbatoio dell’epidemia. Il problema è che, nella fase iniziale, l’Italia ha avuto una limitata capacità diagnostica poiché in tanti hanno avuto si accesso al tampone, ma con grave ritardo. Al contempo, sempre nella fase iniziale, è mancata la diffusione di un numero adeguato di dispositivi di protezione individuale, e la formazione specifica in merito alla necessità del loro attento e puntuale utilizzo, specialmente nella medicina di territorio, cosa che ha causato la morte di troppi medici di base.
L’Italia si è quindi trovata impreparata di fronte al virus anche perché, così come per altri Paesi occidentali (eccetto che per la Germania) non aveva provveduto ad aggiornare il piano di preparazione alle pandemie.
Come se non bastasse, al numero elevato di decessi ha contribuito, anche un sistema sanitario affatto esperto nel fronteggiare una simile emergenza, e la Lombardia, centro nevralgico della prima ondata, ha rappresentato in tal senso un caso emblematico. In Lombardia negli ultimi trent’anni si è costruito un sistema sanitario fondato quasi esclusivamente sulla medicina curativa, con ospedali ad alta tecnologia, efficaci per la cura delle patologie croniche, oncologiche e cardiovascolari, il tutto però a discapito della medicina di territorio. Le pandemie, infatti, non andrebbero combattute negli ospedali, ma gestite sul territorio in modo capillare, con i dipartimenti di prevenzione ed igiene, attuando quella sorveglianza epidemiologica che consente di isolare e contenere i focolai in modo tempestivo e corretto, cosa che purtroppo nel nostro Paese non è avvenuto.
In effetti, sempre negli ultimi trent’anni i Paesi occidentali, tra cui anche l’Italia, forse convinti che le malattie infettive fossero state ormai debellate, hanno favorito un sistema ospedalocentrico e hanno distrutto con le loro scelte miopiche, la medicina di territorio, e la Lombardia purtroppo ha rappresentato l’eccesso di questa tendenza, risultata poi una delle cause più rilevanti nel determinare l’elevato numero delle morti constatate.
Viene dunque da chiedersi: come mai il tasso di mortalità al 20 aprile era al 13,3%, ed oggi è al 3,5%? In realtà il tasso di letalità può essere molto fuorviante; ad aprile era decisamente sovrastimato, perché si trattava di un valore legato ad una sottostima del numero dei casi positivi, derivante dall’esiguo numero rispetto a quello odierno (di dieci e più volte maggiore) di tamponi eseguiti. Molto più attendibile risulta invece il numero di decessi per milione di abitanti in cui l’Italia fa comunque registrare un valore più alto di quello degli altri Paesi dell’Europa occidentale a causa dei motivi precedentemente esplicitati.
In contrapposizione a ciò, I Paesi asiatici come la Corea del Sud ed il Giappone, dove è stato operato un tracciamento capillare della popolazione, grazie all’elevata tecnologia, alla efficienza dello Stato, al rispetto delle regole ed alla cooperazione da parte dei cittadini, hanno attuato una politica decisamente vincente. A testimonianza della veridicità di tale affermazione, si evidenzia che gli asiatici già in tempi NON pandemici, andavano in giro con le mascherine ed avevano un’ossessione per l’igiene delle mani oltre che una naturale tendenza al distanziamento fisico, atteggiamenti che tutt’oggi noi Italiani facciamo fatica ad attuare.
Questi comportamenti, ormai entrati nella cultura comune della popolazione asiatica, probabilmente discendono dal fatto che in tale continente si è assistito alla diffusione di altre epidemie a seguito delle quali si è stati abituati ad un maggiore e più diffuso rispetto delle regole di sanità pubblica. A tutto questo si è anche aggiunta un’elevata capacità di tracciamento dei casi positivi, sebbene spesso realizzata ledendo la privacy dei cittadini.
Nei Paesi occidentali invece, dove poniamo maggiore enfasi sulle libertà individuali, l’adesione alle misure di sicurezza e di distanziamento è stata minore e molto più difficoltosa.
Per finire vorremmo fare solo un brevissimo accenno alla vaccinazione di massa della quale sarebbe alquanto riduttivo parlarne in riferimento ad un singolo Paese. Infatti, trattandosi di una pandemia, bisogna ragionare in termini di popolazione mondiale, risultando necessario raggiungere una copertura vaccinale del 70% della popolazione globale per poter contrastare attivamente la diffusione dell’infezione. Appare però chiaro che le singole Nazioni, nel conseguire l’intento di garantire la vaccinazione a tutta la loro Popolazione, avranno tempistiche differenti, ed è verosimile che i Paesi Occidentali ovvero maggiormente industrializzati raggiungeranno prima degli altri la soglia in grado di garantire la cosiddetta immunità di gregge.
Secondo Anthony Fauci ci vorrà un anno per ritornare alla normalità, che è auspicabile per la fine del 2021. Questo, però, molto dipenderà dalla capacità di implementare le campagne di vaccinazione, riuscendo ove possibile ad organizzarsi in modo tempestivo, per la fine dell’estate o al massimo per l’inizio dell’autunno. Solo così forse si potrà ritornare ad una semi normalità, azzardando anche la previsione, per la fine del 2021, della fine dell’emergenza che stiamo vivendo.